Weekend con Zio Tibia: The house of the devil (Ti West, 2009)

Complice la recensione di The woman ad opera di Elvezio Sciallis e i commenti che ne sono scaturiti, ho deciso di passare un weekend con Zio Tibia e fare una mini maratona di horror che non avevo ancora visto e che si sono rivelati avere una cosa in comune: una ragazza in trappola.

Comincio con The house of the devil (di cui aveva parlato a suo tempo anche Hell, che è molto più sul pezzo di me; ma bisogna capirmi, dopotutto il bradipo è il mio animale guida), in quanto l’unico tra i tre film che ho visto a non essere tratto da un romanzo di Jack Ketchum, e che si distingue anche a livello contenutistico. Niente tortura, violenza psicologica e degrado morale, ma un film volutamente vecchio stampo, filologicamente corretto fino all’inverosimile nel suo ricreare l’estetica e i topoi degli horror a base di satanismo e case infestate degli anni ’70/’80. Questa meticolosissima ricostruzione da parte del regista Ti West di un’epoca in cui (come me, peraltro) era appena nato è sia un punto di forza sia una debolezza di The house of the devil; tutte le recensioni che ho letto si confrontano con questa scelta stilistica e di contenuto. Esercizio di stile sterile e fine a se stesso (se questa meticolosità estrema e serissima stia al di sopra o al di sotto dell’ironia postmoderna che viaggia sull’asse Tarantino-Rodriguez è da vedere), o scelta consapevole e meno conservatrice di quello che sembra?

A dire il vero mi sembra la proverbiale questione di lana caprina. Quali che siano le motivazioni di West per fare un film dei primi anni ’80 nel 2009, come se fosse una capsula del tempo ritrovata, non cambia il fatto che siano passati trent’anni dall’epoca di riferimento, e che il pubblico porti con sé – consciamente o inconsciamente – un bagaglio di visioni diverso, nel bene e nel male, di quello che poteva avere nell’83.  Se THotD fosse davvero uscito trent’anni fa,  forse non sarebbe riuscito a emergere dal mucchio, o comunque non sarebbe sembrato rivoluzionario; oggi fa discutere perché si pone inevitabilmente come riflessione sul cambiamento del gusto: basta paragonarlo con il Texas Chainsaw Massacre del 2003 o con l’ Amityville del 2005, entrambi ambientati negli anni ’70 ma piantati saldamente nel mainstream degli anni zero, tendente alla gratificazione immediata.  THotD, invece, indugia per tre quarti di film sulla costruzione della suspense: il titolo stesso ci informa che c’è qualcosa di maligno che incombe sul fato della protagonista, ma la narrazione rimanda ostinatamente il momento del climax, ammantando di un sapore inquietante la giornata in apparenza banale (ma di una banalità inquietante e straniante) trascorsa dalla ragazza. In un certo senso la soluzione finale è quasi secondaria, oltre che telefonata dal cartello che appare all’inizio del film – la setta satanica, la fuga nel cimitero, sono tutti topoi che anche lo spettatore meno smaliziato ha imparato a riconoscere e ha ormai metabolizzato. Il vero elemento perturbante è tutto nel prima, nel senso di isolamento e alienazione trasmesso da Samantha. Samantha è una vittima designata in quanto già perdente, schiacciata dalla vita in tanti piccoli  modi, tutti concreti e riconoscibili: senza soldi, con pochi amici, lontana da casa, timida e con la fobia dei germi, forse vergine (è un film rigorosamente casto, almeno in superficie). L’orrore è già tutto qui.

Impossibile non parlare della ricostruzione certosina di un’epoca, come in una sorta di “Mad Men meets Carrie“, dove anche le scelte di casting sono accuratissime in questo senso. E la scenografia, perché ovviamente la casa maledetta fa da personaggio aggiunto, con il suo décor opprimente, i suoi angoli bui, le scale che guidano inevitabilmente a orrori nascosti dietro alle porte chiuse – ed ecco, quello è un topos che a mio parere non diventerà mai davvero vecchio perché in qualche modo universale, atavico. L’idea che la casa, il luogo familiare e sicuro per eccellenza, nasconda in sé l’orrore e si trasformi in trappola letale invece che in nucleo protettore, è uno di quei temi che probabilmente non spariranno mai dalle “storie di paura”, siano esse film o libri o leggende metropolitane tramandate ai campiscuola parrocchiali.

Dovendo tirare le somme, mi trovo in parte d’accordo con chi dice che in THotD la forma è più importante della sostanza, ma non ritengo che questo sia per forza un male. A suo modo è un film necessario, perché punta il dito sulla possibilità di pensare uno stile di racconto diverso, che pure senza puntare a contenuti “alti” non tratti necessariamente lo spettatore come un ragazzino nemmeno troppo sveglio. Forse il film che mi ha colpito meno a fondo tra i tre che ho visto, ma resta un titolo che consiglio –  a meno che non siate tra quelli che si sono lamentati perché in 13 assassini di Takashi Miike si parla e si riflette troppo prima di cominciare con le spadate e le vacche in fiamme. In tal caso lasciate che concluda con un’ovvietà di quelle che quando le dice Warhol sembrano più pregnanti:

Un pensiero su “Weekend con Zio Tibia: The house of the devil (Ti West, 2009)

  1. Bell’articolo, come sempre. E sempre troppo pochi, eh… 😛
    Figurati che sono andato a rileggere il mio perché non ricordavo di preciso cos’avessi scritto.
    Comunque, concordo con la tua analisi e con l’idea dell’attesa. A me piaceva questo concetto fin sulle tele squarciate di Fontana, per cui… 🙂

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